Quaderni ADAC 7. Veronica de Giovanelli
Collana e volume a cura di Gabriele Lorenzoni
Coordinamento editoriale: Lodovico Schiera
Testo critico: Angel Moya Garcia
Progetto grafico: Headline, Rovereto
Impaginazione: Publistampa Arti Grafiche, Pergine Valsugana
Editing: Daniela Trentin
Traduzioni: Eurotrad, Urbino
Crediti fotografici: Veronica de Giovanelli; Evelyn Leveghi; Jacopo Salvi; Studio VdG
Un ringraziamento perticolare a Boccanera Gallery, Trento-Milano; MOONENS Foundation, Bruxelles e David Eubelen
Edizioni Mart, 2020
Intervista a Veronica de Giovanelli
Bio Intervista tratta da Quaderni ADAC 2020
“La pittura è un processo che, nel momento stesso della creazione, trasporta e si lascia trasportare dall’immagine in fieri, suggerendo e cercando di cogliere il divenire”.
Ogni aspetto dell’azione antropica è figlio del proprio tempo. Non fa eccezione la pratica artistica, che nei mesi in cui questa monografia viene realizzata e pubblicata, si confronta con la straordinaria emergenza causata dalla pandemia Covid19. Un passaggio che obbliga a ripensare molte pratiche, ma che pone l’arte al centro per l’ennesima volta nella storia, in quanto fragile oggetto di necessaria tutela (economica e politica) e nel contempo indomita forma di resilienza, capace di aprire spazi di visione su possibili orizzonti futuri.
“Già dalle prime settimane di residenza alla Moonens Fondation ho dovuto pensare a un titolo per una mia mostra che si sarebbe dovuta inaugurare ad aprile 2020. Il titolo che avevo scelto era tratto da una poesia di E. Dickinson che recita: To make a prairie it takes a clover and one bee / One clover, and a bee /And revery / The revery alone will do/ If bees are few.
In un periodo incerto come questo le sue parole, superata la coltre romantica, diventano ancora più forti e significative”.
Veronica de Giovanelli (Trento, 1989) si è formata e ha e costruito la propria carriera fra Venezia, Londra e Bruxelles. In questi luoghi, con una modalità di azione che la contraddistingue, ha intessuto relazioni professionali e personali, sfruttando le occasioni di crescita che i rispettivi contesti culturali offrivano, ma anche basando il proprio immaginario visivo sugli aspetti luministici, cromatici e paesaggistici delle varie realtà.
"I luoghi che ho vissuto o attraversato sono un importante fattore tra quelli che si sono sedimentati nel mio archivio interiore, forgiando il mio modo di vedere il mondo e di rappresentarlo. Negli anni in cui ho vissuto a Venezia avevo già uno sguardo attento e diretto sul paesaggio circostante. La laguna, con le sue terre emerse e sommerse, le sue chiazze di colore, la sua atmosfera luminosa e ovattata, ha contribuito a generare una specifica visione cromatica e fenomenica del paesaggio. Eppure, ho sempre voluto stare lontana dai codici formali classici, di origine fiamminga, legati alla veduta paesaggistica. In un ossimoro apparente questa lontananza si è accentuata quando mi sono trasferita proprio in Belgio, paese in cui fin dal Cinquecento è stato sdoganato e diffuso il paesaggio come soggetto a tutto tondo. Il mio lavoro ha assunto costruzioni formali più riconducibili al surrealismo di Magritte, all’informale di Alechinsky e ai cromatismi di Ensor, che alle vedute di Patinir o Brughel. Nei miei dipinti più recenti, infatti, gli atti puramente pittorici sono punteggiati da gesti informali e segni grafici dove la possibilità del panorama è sempre più ristretta, ridotta alla sua natura di suolo, liquido, magma antico. Il Belgio ha anche plasmato i cromatismi dei miei dipinti. Inizialmente i miei lavori si sono incupiti e poi, forse per compensare un cielo che non è 'sempre più blu', i colori si sono fatti molto più accesi, squillanti e artificiali."
Il passato emerge frequentemente nella narrazione artistica e biografica di Veronica de Giovanelli. In particolare Venezia rappresenta un momento prevalente in cui le dicotomie trovano la loro soluzione: pensiero e pratica artistica, formazione e prime esperienze professionali, poesia e disincanto, impegno e libertà, natura e architettura.
"Venezia è per me emblematica non solo come contesto della mia formazione all’interno dell’Atelier F dell’Accademia di Belle Arti, ma anche come luogo in sé. La città e la sua laguna sono un concentrato di meraviglia continua dove il tempo è scandito dalle maree e dove ciclicamente l’onnipresenza delle acque prende il sopravvento. È l’emblema della fragilità del paesaggio, dove l’effetto del cambiamento climatico e l’impronta dell’uomo sono particolarmente evidenti. Tutti questi aspetti sono diventati spunti per la mia ricerca che ha fatto del paesaggio un pretesto per approdare a un discorso più ampio. Venezia è una stratificazione unica di arte, storia e reminiscenze culturali, dove il tempo che passa è percepibile anche solo toccando la balaustra del Ponte di Rialto. Come Venezia, tutto il paesaggio è per me un sovrapporsi di storie e accadimenti che, come un palinsesto, viene costantemente scritto, raschiato e riscritto. Partendo da questi presupposti, nei miei lavori il paesaggio inteso come stratificazione si rispecchia soprattutto nella maniera in cui essi sono costruiti, ovvero da strati più o meno liquidi fatti asciugare e di nuovo sovrapposti. In particolare le velature permettono di scorgere ciò che si trova sotto la superficie, rilevando in parte la storia del dipinto. Il mio lavoro è il frutto di tentativi, ripensamenti e cancellature, di lentezza e azione informale al tempo stesso. È un dialogo attivo con l’immagine e con ciò che mi circonda. Il risultato è quindi diverso dall’'intuizione' genitrice, ma è il figlio e la traccia di questo lungo processo."
L’Atelier F in quegli anni diventa incubatore del talento e della sensibilità di un gruppo di artisti che si muovono d’anticipo rispetto alla tendenza che il mercato dell’arte ha fatto emergere con forza, se non addirittura prepotenza, negli anni immediatamente seguenti, ovvero la pittura, medium che non ha mai abbandonato il ruolo che la storia dell’arte gli riserva, ma che nel corso degli anni Novanta e del primo decennio del nuovo millennio aveva decisamente lasciato il passo ad altre tecniche e forme di espressione.
"All’interno dell’Atelier F io e i miei compagni siamo sempre stati spronati dal professor Carlo Di Raco a metterci costantemente in gioco, a essere esigenti, a rischiare. A lui devo anche l’avermi insegnato a osservare con cura le immagini, a capire le peculiarità del mio lavoro, a perfezionare ciò che potevo migliorare. L’Atelier F non è stato solo un percorso di formazione accademica, è stata un’esperienza totalizzante in continua condivisione e dialogo tra studenti e docenti. Non esistevano pause, nemmeno in estate, quando avevamo a disposizione degli spazi a Forte Marghera e di fatto dipingevamo dalla mattina alla sera. In questo contesto per me la pittura è sempre stata centrale fin dai primi anni di formazione nonostante essa non fosse così diffusa, come lo è oggi, nelle mostre e nelle fiere. Qui in Belgio mi accorgo che, invece, questa carenza non c’è mai stata: la continuità della pittura non si è mai spezzata. Eppure tutte queste considerazioni sono sempre state piuttosto irrilevanti nel contesto della mia ricerca: la pittura è il modo in cui mi esprimo e il modo in cui 'vedo il mondo'. Infatti, anche nelle occasioni in cui ho usato altri media, come in 'Litogenesi', ho comunque lavorato sulla base di processi pittorici, per sovrapposizioni e accostamenti di materia. Il mio modo di vedere e fare pittura è frutto di un 'pensare per immagini' in cui forma e contenuto vanno di pari passo. Credo sia lo stesso motivo per cui amo molto le poesie di Baudelaire o il cinema di Antonioni in cui la narrazione per accostamenti visivi è particolarmente importante ed evocativa."
La pittura come momento generativo personale e come punto di vista sul mondo non si scontra, anzi si rafforza, negli anni dell’Accademia, in dinamiche di lavoro collettivo, in condivisione con artisti e operatori culturali.
"La prima grande soddisfazione professionale è arrivata quando ho vinto il premio giovani artisti della Fondazione Bevilacqua La Masa, alla quale è seguita, l’anno successivo, una mostra a Palazzetto Tito. Nello stesso periodo Eugenia Delfini, co-fondatrice dello spazio indipendente Sottobosco a Mestre, ha contribuito con entusiasmo al progetto di quattro giovani artisti – oltre a me, Andrea Grotto, Cristiano Focacci Menchini e Stefano Moras – e nel 2014 abbiamo inaugurato la mostra 'Nessun luogo è lontano'. Questa esperienza ha dato il via a un susseguirsi di occasioni importanti, come 'The intruders' con la curatrice Federica Bianconi e la mia prima personale co-curata da Daniele Capra. Quest’ultima ha anche avuto come risvolto positivo l’incontro con Giorgia Lucchi, fondatrice di Boccanera Gallery, con la quale collaboro tuttora. Parallelamente, ho continuato a dialogare con un gruppo di artisti di formazione veneziana, che si nutre di stima, amicizia, confronto e forte spirito di collettività. Su questi valori abbiamo creato 'Fondazione Malutta', unendo interessi professionali e atteggiamenti spesso ironici che mescolano con disinvoltura party improvvisati e ambientazioni da botteghe rinascimentali. Tra il serio e il faceto abbiamo iniziato a organizzare delle piccole mostre nei nostri appartamenti, per poi arrivare a gestire progetti in collaborazione con il Padigione Albania della 15ma Biennale Architettura di Venezia, la galleria Monitor di Roma, il Teatrino di Palazzo Grassi di Venezia e il Museo Santa Maria della Scala di Siena."
Ma l’incredibile slancio degli anni veneziani si scontra con la necessità di trovare altri spazi di crescita, professionale e commerciale, che nella città lagunare sembrano spesso preclusi.
"Dopo l’Accademia ho deciso di trasferirmi a Bruxelles, che mi aveva colpito per la sua vivacità culturale e per l’ambiente favorevole ai giovani artisti. Oltre ad avere una scena artistica fra le più dinamiche d’Europa, è una delle città più multiculturali al mondo, dove, al contempo, i rapporti umani e sociali sono quelli di una piccola città. Inoltre, pur essendo una capitale europea, è molto meno cara di altre grandi città e al tempo stesso permette di raggiungere Parigi, Londra e Amsterdam in meno di due ore di treno. La necessità di avere un dialogo continuo con altri artisti mi ha portata a iscrivermi a un Master all’ENSAV La Cambre di Bruxelles, una scuola fondata da Henry van de Velde basandosi su principi simili a quelli del Bauhaus. Qui diverse pratiche interagiscono fra loro e vengono organizzati frequenti studio visit e mostre. Grazie a questo master, ho avuto la fortuna di esporre al nuovo Kanal-Centre Pompidou ed essere selezionata dalla Moonens Foundation per una residenza di un anno. A Bruxelles ho anche avuto varie occasioni di crescita nell’ambito dell’insegnamento e della formazione. Da qualche anno, grazie alla collaborazione con scuole e associazioni culturali, organizzo laboratori per bambini e adulti sulla pittura e sul paesaggio. È un lavoro stimolante che mi aiuta a sostenermi economicamente e che allo stesso tempo mi permette di ragionare sugli elementi di base del fare arte."
In una pittura che vive costantemente sulla cresta di confine fra astrazione e figurazione, con rimandi al mondo reale che appaiono impastati in un’amalgama cromatica che ha la sua unica fonte nella creatività dell’artista, appare complesso individuare delle fonti dirette.
"Credo che il momento dell’infanzia sia stato generativo per la mia visione attuale: sono cresciuta in Trentino, in Valle di Cembra in un ambiente dove la natura è centrale ma l’impronta antropica è piuttosto forte. Ero una collezionista compulsiva di sassi, conchiglie, foglie, fossili, vetri e legni levigati dall’acqua. Tutt’ora colleziono molte cose, passo molto tempo nei mercatini delle pulci e nelle librerie di seconda mano cercando in particolare libri, stampe e mappe antiche. Al contrario della maggior parte dei pittori che conosco, non sono una disegnatrice compulsiva, ma fotografo di tutto e possiedo un grande archivio di immagini. Ultimamente, in una bancarella, ho scovato delle meravigliose illustrazioni che rappresentano rocce al microscopio, mappe geologiche e astrali: queste stanno generano idee per progetti futuri. Il montaggio originale di un film, il verso di una poesia imparata a memoria, le immagini della NASA, un appunto scritto durante un viaggio, sono solo alcune delle cose che possono affiorare in maniera inattesa dal mio immaginario. Tutte queste memorie visive possono creare un fil rouge che fino a poco tempo prima sembrava impossibile suggerendo vari spunti per il mio lavoro. Da qui, creo spesso dei piccoli bozzetti preparatori, dove appunto delle indicazioni ben precise che poi però non seguo mai, perché in ultimo è sempre la pittura a prendere il sopravvento."