Quaderni ADAC 6. Mali Weil

Collana e volume a cura di Gabriele Lorenzoni
Coordinamento editoriale: Lodovico Schiera
Testo critico: Antonia Alampi
Progetto grafico: Headline, Rovereto
Editing: Daniela Trentin
Traduzioni: Language Consulting Congressi, Milano
Crediti fotografici: Cinzia Bongino; Anna Donatiello – Alessia Tripodi; Francesco Elipanni; Dido Fontana; Andrea Pizzalis; Alessandro Sala; (Cesura Lab per Centrale Fies); Roberta Segata; Mali Weil
Edizioni Mart, 2020

  • "Companions (serie)" (dettaglio dell'opera), stoffa, lichene, legno fossile, copale, quarzo, calcite, dimensioni variabili, courtesy l’artista

    "Companions (serie)" (dettaglio dell'opera), stoffa, lichene, legno fossile, copale, quarzo, calcite, dimensioni variabili, courtesy l’artista

  • "Erotica (serie)" (dettaglio dell'opera), 2017/2018, stampa su carta fotografica, courtesy l’artista

    "Erotica (serie)" (dettaglio dell'opera), 2017/2018, stampa su carta fotografica, courtesy l’artista

  • "Erotica (serie)", 2017/2018, stampa su carta fotografica, courtesy Spazio KN Trento

    "Erotica (serie)", 2017/2018, stampa su carta fotografica, courtesy Spazio KN Trento

  • "House of Immortalities", Brain, 2015/2016, libro, courtesy l’artista

    "House of Immortalities", Brain, 2015/2016, libro, courtesy l’artista

Intervista a Mali Weil

Bio Intervista tratta da Quaderni ADAC 2020

“Molti lavori nascono come 'site specific'. Negli anni, abbiamo però iniziato a pensarli come 'human specific', cioè relazionati al pubblico che li fruisce più che al luogo stesso.”

Mali Weil è un collettivo nato a Milano nel 2008 dall’incontro dei percorsi personali e professionali, degli interessi, delle ossessioni e delle sensibilità di Elisa Di Liberato (Chieti, 1981), Lorenzo Facchinelli (Trento, 1982), Mara Ferrieri (Milano, 1977). La sua pratica sfugge alle etichette, ri-definendosi ad ogni progetto nell’ambito di una capacità estrema di adattamento alle situazioni, ai messaggi da veicolare, agli ambienti, al pubblico e alle esigenze comunicative che la contingenza e le urgenze impongono. Mali Weil si muove a vari livelli nel sistema dell’arte contemporanea, sottraendosi e vivendo ai margini; in altre circostanze ne sfrutta invece i codici, le dinamiche e le regole, assecondandone le peculiarità, spesso creando cortocircuiti. Mali Weil è più di un collettivo, è una realtà che condivide il nostro spazio, il nostro campo di azione e non si sottrae mai al dibattito.

“Il nome è stato scelto per sostituirsi in toto alle nostre identità: si tratta di un’anagrafica completa, non di un nickname, che veicola però un’identità incerta, di provenienza etnica, sociale, culturale e geografica ignota. Per alcuni Mali Weil potrebbe essere africana, altri la considerano invece più una ebrea-polacca. Il genere di Mali Weil è stato ampiamente discusso e alla fine abbiamo deciso di scegliere di parlarne al femminile perché non ci convincevano gli altri pronomi e sicuramente non volevamo parlarne al maschile. Ci è sempre sembrato freddo e banale utilizzare 'it' nella traduzione in inglese e tra il 'she' e il 'he' abbiamo preferito il 'she'. La scelta trova conferma anche se esaminiamo la questione da un punto di vista meramente statistico, considerato che a tutt’oggi gli artisti sono in netta prevalenza di sesso maschile e ci sembrava importante dare un piccolo contributo in direzione opposta”. 

La ricerca di Mali Weil è ibrida e fluida e si contamina e nutre di stimoli provenienti da molti campi del sapere e delle arti. La base di partenza è però il linguaggio performativo, che risulta un’esperienza generativa e trasversale.

“Noi partiamo sempre da una singola pratica che è quella performativa. Il nostro approccio si origina e ritorna alla dimensione performativa per il modo in cui si sviluppano i progetti, che consideriamo sempre delle performance espanse. È come se le azioni che compongono un progetto, viste nel loro insieme, fossero un’unica performance che si articola su linguaggi diversi e spesso anche in territori e momenti diversi. Partendo da queste premesse ci lasciamo contaminare e intraprendiamo un dialogo con una serie di linguaggi che sono di tipo artistico (arte, arte applicata, video, foto, installazione) ma anche comunicativo, commerciale, scientifico, architettonico. Non si tratta di una scelta fatta a tavolino: non decidiamo a priori di fare un lavoro di design piuttosto che video. Ogni volta che andiamo avanti nella nostra ricerca con nuove tematiche e problematiche da affrontare, ci imbattiamo nella medesima necessità, che è sia quella di produrre oggetti che quella di proseguire la ricerca sul performativo perché esprimono, dal punto di vista politico ed estetico, due necessità complementari che si muovono in parallelo. Spesso ci lasciamo contaminare e invadiamo il campo della comunicazione o quello del branding, andando a parassitare forme che non sono propriamente artistiche. L’idea di performance espansa prevede che l’espansione non sia solo temporale, ma anche linguistica, spaziale e concettuale. Una performance può così avere come display una rivista, un’aula di università, una fiera di design, una galleria. Da questo punto di vista siamo 'schifosamente' aperti, senza limiti nell’individuazione di formati alternativi. Questa cosa per noi è vitale ma allo stesso tempo problematica perché ogni volta dobbiamo prendere confidenza con degli ambiti che non avevamo mai praticato prima. La realtà, è che noi non decidiamo: la forma è sempre la risposta a un’ossessione, che dura magari da anni e poi si puntualizza in un lavoro. La più grande ossessione che abbiamo è quella di capire come esperire la realtà attraverso la performance in maniera sempre più efficace e la forma risponde a questo bisogno, non riusciamo a deciderla: è la forma che ci sceglie.”

Critica e partecipazione, vicinanza e repulsione, rifiuto e integrazione: il rapporto fra Mali Weil e il sistema dell’arte è complesso ed è esso stesso parte del processo di ricerca. 

“C’è stato un momento specifico di rottura in cui abbiamo passato un pomeriggio a decidere di abbracciare una modalità di performance più intima e relazionale e di entrarvi in prima persona, rinunciando a lavorare con performer, danzatori, attori. Percepivamo la necessità di avere qualcuno a cui delegare determinate istanze ma non abbiamo mai trovato quel qualcuno fino a quando non ci siamo messi noi a fare i perfomers. I performers mettevano la maschera e pensavano di interpretare qualcosa ma in quello che facciamo noi non c’è nulla da interpretare, non ci sono personaggi né alcun livello di finzione. Siamo dunque dovuti entrare noi, ma ora siamo ad un altro punto di svolta e stiamo cercando di uscirne: non per disimpegno però, come d’altronde non era autobiografismo il performare in prima persona. Il nostro percorso si può anche leggere come una diminuzione del livello di performatività sempre più accentuato, fino alla nostra scomparsa, fino al punto zero toccato con 'House of Immortalities', un’opera costituita da alcune celle monastiche in cui lo spettatore rimaneva isolato con un libro, in meditazione e con una modalità di fruizione completamente personale e autonoma. Da quel momento in poi abbiamo semplicemente chiesto al visitatore di essere il performer. Successivamente siamo tornati a lavorare con performer, ma siamo dovuti arrivare alla spogliazione per poi decidere di reintrodurre alcuni elementi a seconda del caso. Adoriamo come performer i bambini, li invitiamo spesso ad assumere dei ruoli in quanto rappresentano l’elemento spaesante per eccellenza; qualsiasi cosa detta e fatta dal bambino ti mette già in crisi, ti impedisce di rispondere con la tua maschera quotidiana, fa subito breccia. Soprattutto, puoi chiedere loro di preformare qualcosa e non agiranno mai senza essere sé stessi; questo è quello che abbiamo sempre cercato nei performer senza mai riuscire a trovarlo, nemmeno in noi stessi in quanto troppo consapevoli di quello che abbiamo creato. Il bambino è quindi il performer ideale di Mali Weil.” 

Mali Weil non ha una casa, ma molte case. Il rapporto con i luoghi non è di puro servizio ma assume un valore specifico, in quanto decisione di campo sul dove progettare, agire, costruire. Ogni luogo ha il suo pubblico quando si parla di azioni performative, vi è un’efficacia e una risposta diversa.

“Ci siamo conosciuti a Milano quindi il primo luogo di Mali Weil è l’accademia 'Paolo Grassi' dove rappresentavamo i tre quarti della classe di regia. Come registi abbiamo fatto quello che nessuno osa fare, ovvero firmare in tre, negando l’autorialità che sta alla base del concetto di regia classica. Subito dopo viene Trento: il primo lavoro performativo che abbiamo fatto ha avuto luogo alle Gallerie di Piedicastello, nell’ambito del progetto Gemine Muse curato da Federico Mazzonelli. È stato uno dei primi momenti in cui abbiamo affrontato il pubblico in maniera non canonica rispetto alla formazione accademica che avevamo, quindi mettendolo in movimento e spostandolo per seguire una narrazione. Trento è stata una vocazione, abbiamo deciso di renderla una base su cui costruire produzioni, relazioni, ragionamenti. A distanza di anni, dopo la parentesi berlinese, il senso di questa scelta si è rivelato pienamente poiché ci ha dato occasione di entrare in contatto con Centrale Fies, all’inizio solo come artisti in residenza, poi via via con collaborazioni sempre più intense, fino a sentirci parte del progetto. Fies fra tutte le case di Mali Weil è forse quella più confortevole e aperta. Sicuramente siamo sempre stati nomadi e questo ha formato la pratica, per molto tempo non abbiamo avuto uno studio in un unico luogo ma abbiamo sempre lavorato in residenze e questo ha influenzato anche il modo in cui abbiamo prodotto il lavoro per molti anni. 

Mali Weil non cerca mai un compromesso, perseguendo i suoi obiettivi di pensiero e ricerca. Nello stesso tempo, però, agisce in maniera estremamente democratica, interrogandosi sempre sul rapporto con il pubblico, cercando di aumentare e rendere confortevole il livello di interazione con il pubblico.

“Vi è una grandissima attenzione a chi sarà il pubblico che fruirà quel singolo lavoro, in quel preciso posto, in quel dato momento. Forse questo deriva anche un po’ dal nostro passato, per certi versi negletto, del teatro; il rapporto con il pubblico dà forma al modo in cui esponiamo, mettiamo in scena, strutturiamo ogni lavoro. 

Noi partiamo sempre chiedendoci 'come percepisce questa cosa chi la vedrà?', 'cosa vivrà il pubblico in termini di esperienza?', 'come sarà il percorso dall’inizio alla fine?'. È un design del percorso del pubblico. Anche se molte volte si tratta semplicemente di arrivare a vedere un oggetto, c’è sempre un’attenzione specifica: da quando il fruitore entra nello spazio scelto, viene preso in carico fino a quando ne esce. Questo ragionamento si ibrida con tutte le nostre esigenze di carattere estetico, politico, etico. Molto spesso cerchiamo di ritardare quell’uscita il più possibile, per cui ci interroghiamo sempre su come far durare la performance oltre la performance ovvero oltre la cornice spazio-temporale ad essa deputata. Oppure cerchiamo di farla iniziare prima, ad esempio inviando messaggi ai visitatori, generando interferenze.” 

Un organismo complesso moltiplica non solo i punti di vista, ma anche i riferimenti culturali, che si sedimentano secondo una stratigrafia variabile oppure, utilizzando un’immagine più efficace, restano sospesi in una galassia di rimandi incrociati, dove anche i vicoli ciechi non mancano di importanza.

“Siamo onnivori di contemporaneità e la contemporaneità per statuto è effimera; ci sono delle cose di cui noi ci nutriamo per un anno o due e poi si esauriscono. Ne teniamo comunque traccia e annotiamo ogni passaggio, sia i riferimenti che diventano stabili che quelli che riteniamo di scartare. Le nostre personalissime ossessioni, spesso di ambito letterario o filosofico, sono chiaramente annotate nel nostro sito internet, che è per noi una grande Moleskine, uno strumento di lavoro e riflessione: in fondo a ogni progetto indichiamo il demone che lo ha generato. Alcuni autori e alcuni riferimenti rimangono con noi per lungo tempo ed entrano così nella 'tabula gratulatoria', che per sua natura è incompleta e in divenire e che rappresenta il nostro faro nella notte.”