Quaderni ADAC 5. Michele Parisi

Collana e volume a cura di Gabriele Lorenzoni
Coordinamento editoriale: Lodovico Schiera
Testo critico: Daniele Capra
Progetto grafico: Headline, Rovereto
Editing: Daniela Trentin
Traduzioni: Eurotrad, Urbino
Crediti fotografici: Archivio fotografico Mart, foto Alessandro Nassiri; Nicola Eccher; Ulrich Egger; Alessandro Fabbris; Gabriele Salvaterra
Stage: Margherita Azzolini
L'artista desidera ringraziare il padre e Paolo Maria Deanesi Gallery, Trento
Edizioni Mart, 2019

  • "Salomè" (dettaglio dell'opera), 2018, gelatina fotosensibile, grafite, olio su tela preparata, 117 x 97 cm, Courtesy l’artista

    "Salomè" (dettaglio dell'opera), 2018, gelatina fotosensibile, grafite, olio su tela preparata, 117 x 97 cm, Courtesy l’artista

  • "Scriptorium – dove nasce un racconto", 2017, gelatina fotosensibile, grafite, olio su tela preparata, 90 x 130 cm, Collezione privata

    "Scriptorium – dove nasce un racconto", 2017, gelatina fotosensibile, grafite, olio su tela preparata, 90 x 130 cm, Collezione privata

  • "Di ogni cosa è rimasto il vento" (dettaglio dell'opera), 2019, gelatina fotosensibile, grafite, olio su tela, 150 x 115 cm, Courtesy l’artista

    "Di ogni cosa è rimasto il vento" (dettaglio dell'opera), 2019, gelatina fotosensibile, grafite, olio su tela, 150 x 115 cm, Courtesy l’artista

  • "Come se chiedessi all'oriente se avesse un mattino per me - mouseion" (dettaglio dell'opera), 2019, gelatina fotosensibile, graffite, olio su tela preparata, 40 x 27 cm, Courtesy l'artista

    "Come se chiedessi all'oriente se avesse un mattino per me - mouseion" (dettaglio dell'opera), 2019, gelatina fotosensibile, graffite, olio su tela preparata, 40 x 27 cm, Courtesy l'artista


Intervista a Michele Parisi

Bio Intervista tratta da Quaderni ADAC 2019

“La pittura è un malessere che restituisce bellezza”.

Il lavoro di Michele Parisi (Riva del Garda, 1983) è lento, meditato, talvolta sofferto. La sua dimensione di artista esercita una forza totalizzante sulla sua esistenza e agisce da connettore fra i molteplici ambiti di interesse, dalla letteratura al cinema, dall’architettura alla filosofia, divenendo egemone anche rispetto alla dimensione professionale dell’insegnamento e a quella delle relazioni sociali. Non una persona isolata dal contesto sociale: Parisi non deve nulla al mito dell’intellettuale sulla torre d’avorio, poiché sa sporcarsi le mani con la quotidianità. Ma, nello stesso tempo, ogni aspetto della vita, quella bassa, della carne, come quella alta, dello spirito e dell’intelletto, entrano nel suo campo di azione e pensiero artistico. 

“Ho un taccuino dove scrivo e faccio degli schizzi. Quando guardo un film, leggo una frase su un cartellone pubblicitario o una pagina di un libro, o cammino in uno spazio aperto, se rimango in qualche modo colpito, dal punto di vista intellettuale o delle emozioni, converto lo stimolo in un appunto, grafico o testuale. Questa è la mia forza e nello stesso tempo la mia condanna, perché non risposo mai. Devo sempre averlo come me, anche sul comodino mentre dormo, mi segue sempre. Magari leggo un romanzo e c’è una frase che tolta dal contesto diventa altro, si trasforma e ti trasforma. Per alcuni lavori recenti, ad esempio, sono partito da un verso di una poesia di Emily Dickinson che dice: 'come se chiedessi all’oriente se avesse ancora un mattino per me', o qualcosa del genere. Questa frase mi ha distratto dalla lettura, l’ho riscritta, ho capito che sarebbe potuta essere un titolo, ci ho lavorato e sono venute queste opere, che si focalizzano su mani di donna. Come diceva Bruno Munari, 'ognuno vede quello che sa'; e io cerco di vedere e sapere il più possibile, di moltiplicare la stratificazione interna al mio sapere. Quando vado a visitare qualcosa passo un sacco di tempo a guardare i dettagli che solitamente non interessano a nessuno. Ho visitato Ca’ Rezzonico a Venezia una mattina di gennaio ed ero solo. Mi sono fermato a guardare anche i particolari nascosti, gli scorci dei colonnati e i giochi di luce sui pavimenti e ho trovato che tutto si intonasse perfettamente alla frase di Apollinaire 'Ho donato tutto al sole, tutto meno la mia ombra'. “

Nonostante l’imponente sovrastruttura culturale, il lavoro, inteso come opera, resta al centro del pensiero e della pratica dell’artista e la traduzione di stimoli così eterogeni non può che richiedere una tecnica a sua volta complessa e meditata, che si avvale di un palinsesto di segni e velature che rimanda alla stratificazione del pensiero: 

“La tecnica con cui lavoro me la sono conquistata in anni di tentativi e fallimenti, ma non è cristallizzata, cerco sempre di superarla e ogni lavoro è a sé; una tela la dipingo in un modo, una nell’altro. Non c’è una regola. La coerenza risiede a un livello più alto. La fotografia è uno strumento del quale mi avvalgo nella prima fase, quando lavorando con la gelatina in una maniera specifica, riesco a imprimere la tela con una leggera traccia. Furetiére, nel 'Dictionnaire', nel XVII secolo, alla parola “rappresentare” diceva che 'l’immagine è sostituire qualcosa di presente con qualcosa di assente'. Quest’immagine è reale, non è una rappresentazione, si è generata tramite un’impressione di luce. Una volta completato il fissaggio, ci vogliono dei giorni prima che il supporto diventi lavorabile. Da questo momento inizia il mio lavoro di pittore: scelgo le cromie, procedo per velature e sovrapposizioni, risalgo dalle profondità della tela fino alla superficie pittorica, finché ottengo quello che mi interessa”. 

La lavorazione delle tele porta il soggetto lontano dall’immagine di partenza, che rimane come una presenza impalpabile e spesso non riconoscibile. Un mistero voluto e cercato ma non fine a sé stesso: “Io dico sempre 'I ricordi sostituiscono gli occhi'; parlando di stratificazioni, l’opera è una stratificazione dei ricordi che sostituiscono quello che tu hai visto. Magari non ho voluto realizzare un’immagine fotografica di quello che ho visto in quanto volevo ricordarmelo in maniera migliore, ad esempio appropriandomene attraverso il disegno. Sono tutti pensieri che non stanno da nessuna parte nell’arte contemporanea, faccio questi viaggi per me stesso, meditare mi viene spontaneo. Spesso a margine delle mostre mi capita di parlare con i visitatori e una cosa che mi dà molto è quando questa lentezza viene percepita, ed anche apprezzata.”

Un elogio della lentezza che pare cozzare contro le regole del sistema dell’arte contemporanea, che impone ritmi che spesso distolgono dalla profondità del pensiero sotteso all’opera, trasformandola in merce: 

“Siamo in un’epoca molto veloce, usa e getta. Io invece ho bisogno del tempo, ma contemporaneamente lo temo, mi fa paura e continuo a misurarlo. Fa paura il tempo che va via. Queste riflessioni cerco di condividerle anche con i miei studenti a scuola: ci lavoriamo, loro hanno tutta la vita e ogni possibilità di errore e di rimedi a disposizione. Il risultato della discussione li fa crescere, mentre io lo conservo dentro di me e lo aggiungo agli stimoli che mi servono per vivere e lavorare. C’è uno scambio, la scuola è un continuo confronto. Ho bisogno di un confronto, con un pubblico che fa.”

La scuola è un momento di passaggio, di confusione e di infinite possibilità. Improvvisamente si possono però aprire, grazie a un gesto, un pensiero, un consiglio, una riflessione le porte di una via che pare già tracciata e resta solo l’urgenza di percorrerla: “Ricordo con precisione il momento in cui ho detto 'Voglio fare l’accademia e voglio fare il pittore'. Un giorno ero sul pullman, di ritorno da una giornata alla Scuola d’Arte Depero di Rovereto. Stavo leggendo l’ennesima monografia di una collana. Non ricordo chi fosse l’artista, ma come in decine di altre biografia c’era scritto che aveva frequentato l’accademia. D’improvviso tutto mi è sembrato chiaro e non ho avuto esitazioni; il giorno seguente ho preso il treno per Bologna, sono andato a visitare gli spazi dell’accademia e mi sono iscritto. In un momento ho abbandonato il progetto di lasciare tutto: non sopportavo la computerizzazione del processo creativo. Quando avevo iniziato la scuola lavoravamo a mano e attorno al 2000-2001, tutto era computerizzato e questa cosa non mi piaceva. A me piaceva la progettazione e il design ma non riuscivo a vedermi seduto sulla scrivania davanti a un computer e tutt’ora posso dire di non aver mai indossato una cravatta.” 

Per Parisi l’accademia rappresenta un passaggio generativo, poiché la sua pratica artistica si avvale nello stesso tempo di molteplici fonti culturali, letterarie e filosofiche e di una sicura padronanza delle tecniche, dal disegno a mano libera, fondamento tradizionale del metodo accademico, che Parisi applica in maniera continuativa nella fase di schizzo / studio sui taccuini, sia quelle del campo pittorico che quelle legate al procedimento fotografico analogico: “L’accademia mi ha dato tanto, ma non è stato facile. Mi sono dato da fare sia per apprendere il più possibile che per mantenermi lavorando di notte nella consegna dei quotidiani. Mi viene in mente quella frase di Plinio 'Nulla dies sine linea'. Bisogna continuare, martellare tutti i giorni: in accademia eravamo decine e se adesso guardo chi lavora, siamo veramente pochi.”.
Una di figura di particolare rilievo all’interno dell’accademia bolognese è quella di Concetto Pozzati, artista di fama internazionale che deteneva la cattedra di pittura: “Il lavoro di Pozzati era distante anni luce da quello che interessava a me dal punto di vista strettamente pittorico, ma come intellettuale era fantastico. Portavo a Pozzati i miei lavori tutte le settimane e lui spesso si fermava a parlarmi, dandomi consigli e facendo riferimenti a eventi del passato che non conoscevo minimamente. Io non capivo niente, ma cercavo di assorbire. Non dava più di 23 al primo anno e a me invece diede 28: lo ricordo con un certo orgoglio! Peraltro, lui mi ha introdotto presso la Galleria 42 e lì ho fatto la mia prima personale. Gli devo molto.”

La voglia di imparare di Parisi va di pari passo con il furore produttivo e sperimenta in numerose direzioni, anche incontrando delle strade che si rivelano poi dei vicoli ciechi: “Producevo molto, ogni settimana tre o quattro tele, oltre a installazioni, fotografie, altri progetti. Lavoravo molto su percezione e astrazione; prendevo delle immagini fotografiche, ingrandivo talmente tanto un particolare da ottenere una cosa astratta. L’idea era di creare qualcosa di insospettabile da una cosa insospettata. Poteva piacere o no, a me piaceva ma percepivo che il lavoro non arrivava al pubblico, come se ci fosse un velo a nasconderlo. Ad un certo punto avevo voglia di tornare alla figura e di usare l’olio; prima usavo tele grezze sulle quali applicavo velature liquide e grazie un lento procedimento di asciugatura ottenevo un invecchiamento dell’immagine che mi piaceva. Mancava però l’aspetto fisico, avevo bisogno di una certa materialità: il ritorno all’olio e l’uso di una tela più resistente mi ha condotto a una fase ideale. La mia percezione così facendo è stata quella di riuscire ad abbattere un muro, riuscire parlare una lingua più genuina e diretta”. 

L’Accademia però può diventare uno spazio avulso dalla realtà, che ti imprigiona in un meccanismo lontano dalla vita reale: “Un giorno ho deciso di scommettere su di me per l’ennesima volta: Pozzati venne obbligato al pensionamento e mi trovai senza una guida: così caricai in un carrello della spesa del Conad una decina di quadri, mettendomi a girare dallo studio di un professore all’altro, in cerca di dialogo ma anche di occasioni. Per ultimo ho bussato alla porta di un giovane docente, che non conoscevo, Luca Caccioni. Con lui c’è stato subito feeling, abbiamo fatto una bella chiacchierata, ha guardato il mio lavoro e al di là della qualità delle opere, intuii che avevo voglia di lavorare. A lui serviva un assistente per preparare una mostra a Roma. Non ci pensai due volte, licenziandomi dal giornale. Da lì è iniziato un nuovo capitolo della mia vita. Andavo nello studio di Caccioni tutti i giorni: tiravo tele, montavo quadri, imballavo allestivo le opere in Gallerie e Musei, seguivo il fotografo e i grafici. Insomma, vedevo come si costruisce una mostra, cosa significa fare l’artista al di là dell’aspetto di creazione pura. Questo mi è servito molto. Dopo circa 4 anni avevo deciso di rimettermi in gioco, ripartire da zero e cambiare aria, perché avevo voglia di iniziare seriamente a fare cose mie e sono tornato in Trentino.”

Il ritorno in Trentino segna l’inizio della carriera da professionista di Michele Parisi: “Al Museo dell’Alto Garda – MAG ho conosciuto Gianni Pellegrini, artista e persona che stimo moltissimo, che fin da subito mi ha trattato alla pari, da collega. Fra i primi curatori a interessarsi al mio lavoro ci sono stati Gabriele Salvaterra, Federico Mazzonelli, Denis Isaia, Camilla Martinelli e Daniela Ferrari e da lì a poco sono stato contattato da Paolo Maria Deanesi che mi ha proposto una personale nella sua galleria: è stato l’inizio di un rapporto professionale e di amicizia che a tutt’oggi va avanti!”.

Michele Parisi vive ad Arco e ha il proprio studio a Dro.