Quaderni ADAC 3. Luca Coser

Collana e volume a cura di Gabriele Lorenzoni
Coordinamento editoriale: Lodovico Schiera
Testo critico: Carlo Sala
Progetto grafico: Headline, Rovereto
Editing: Daniela Trentin
Traduzioni: Language Consulting Congressi, Milano
Crediti fotografici: Derwatt Studio, Trento
Stage: Giosuè Ceresato; Valentina Dolcini; Leonardo Russo
Edizioni Mart, 2018

  • "Applause" (dettaglio dell'opera), 2018, tecnica mista su lino, 190 x 180 cm, Courtesy l’artista

    "Applause" (dettaglio dell'opera), 2018, tecnica mista su lino, 190 x 180 cm, Courtesy l’artista

  • "Io sono la lotta" (dettaglio dell'opera), 2017, tecnica mista su lino grezzo, 190 x 180 cm, Courtesy l’artista

    "Io sono la lotta" (dettaglio dell'opera), 2017, tecnica mista su lino grezzo, 190 x 180 cm, Courtesy l’artista

  • “Landscape” (dettaglio dell'opera), 2018, tecnica mista su lino, 190 x 180 cm, Courtesy l’artista

    “Landscape” (dettaglio dell'opera), 2018, tecnica mista su lino, 190 x 180 cm, Courtesy l’artista

  • “Le forme commoventi” (dettaglio dell'opera), 2016, acrilico su alluminio, 190 x 190 cm, Courtesy l’artista

    “Le forme commoventi” (dettaglio dell'opera), 2016, acrilico su alluminio, 190 x 190 cm, Courtesy l’artista

  • Luca Coser nel suo studio

    Luca Coser nel suo studio

Bio Intervista tratta da Quaderni ADAC 2018

“Uso la cultura esattamente come mio nonno usava le sementi nei campi. Il mio pensiero mi serve per coltivare l’insalata, che nel mio caso sono quadri”.

Luca Coser è una figura di artista e intellettuale a tutto tondo: la sua ricerca artistica si inscrive con ostinata coerenza nel campo della pittura, con incursioni o sovrapposizioni con il disegno, il collage e, talvolta, l’installazione, ma accanto a questa occupazione (e preoccupazione) principale, si dedica alla professione di docente presso l’Accademia di Belle Arti di Brera ed è attivo come curatore e come attivatore culturale nei confronti in particolare dei giovani artisti. “È un’unica galassia che fa parte di un meta-testo. La mia visione dell’arte e della cultura ha una morfologia e questa ha dei ritmi: quando entro in contatto con una qualunque manifestazione culturale, che sia un mio quadro, una lezione in aula oppure l’organizzazione di una mostra, rispondo agli stessi identici ritmi. Sono io. Da questo punto di vista c’è un narcisismo mostruoso, ma sano, innocente, non costruito per arrivare da qualche parte. Sono semplicemente io che dico 'io sono tutte queste cose qua e non mi interessa essere diverso'."

Il rapporto con gli studenti di oggi dipende dal rapporto che Coser, a sua volta giovane iscritto all’Accademia negli anni Ottanta, ha costruito con i suoi docenti: “Mi chiedono spesso come si faccia a diventare artisti. Io rispondo che una regola non esiste, ma ci sono delle dinamiche e io gliele racconto: come uno scrittore deve leggere tanto prima di iniziare a scrivere, così il pittore deve vedere tantissima arte prima di iniziare a dipingere. Ben inteso, devono anche dipingere, la pratica è necessaria, ma non solo quella. Chi sostiene che il giovane debba solo dipingere o scolpire o fotografare sbaglia: cosa raffiguri, di cosa ti occupi se non hai niente da dire? Puoi farlo se sei un genio, ma io non posso pensare di avere classi di soli geni davanti, perché sarebbe dannoso per loro stessi se glielo lasciassi pensare. Che poi non c’è niente di male a non essere geni: la maggior parte degli artisti del 900 non lo sono, sono figure significative perché hanno saputo fare bene quello che sentivano”.

Il percorso di studi di Luca Coser ha seguito un iter assolutamente tradizionale, che ha posto al centro la pratica artistica nella sua accezione di “saper fare”: “Provengo da una famiglia di estrazione operaia dove la cultura non era una priorità. A scuola inoltre non andavo molto bene: l’unica cosa nella quale mi distinguevo era disegnare. Mia madre seppe andare contro al volere di mio padre e con grande praticità adottò la strategia del 'se è l’unica cosa che sa fare, facciamogliela fare'. A Trento c’era una scuola media annessa all’Istituto d’Arte, dove sono stato iscritto; da lì sono passato all’Istituto d’Arte, per poi arrivare, in un naturale percorso di crescita, all’Accademia delle Belle Arti”.

Gli anni della formazione coincidono con uno dei passaggi più significativi della seconda metà del XX secolo, quello fra la stagione del grande impegno sociale e politico degli anni Settanta e il decennio del disimpegno, del benessere diffuso e di una quiete sociale che ben presto diventa stagnazione: “Il destino di quelli nati intorno alla metà degli anni Sessanta è di vivere in un costante spazio interstiziale fra momenti di crisi. Questa consapevolezza mi ha permesso di rendermi conto che il mio è un destino di citazione, nel senso nobile del termine. Come altri della mia generazione, da teenager eravamo alla finestra, in attesa di poter scendere in piazza con le molotov; quando abbiamo avuto l’età siamo scesi, ma le piazze erano ormai vuote. Erano i primissimi anni Ottanta. Le piazze deserte hanno significato per noi che aspettavamo di fare cultura collettiva una grandissima sconfitta e un grande disorientamento. Quelli come me che partecipavano ai collettivi, ai cineforum di film impegnati sono stati in qualche modo emarginati, questo ha comportato per noi vivere il fenomeno culturale in chiave individuale, piuttosto che collettiva”.

L’Accademia in questo contesto diventa un’opportunità di fuga e di riscossa. Come da lunga tradizione per gli artisti legati alla città di Trento, Venezia diviene un approdo quasi naturale. Sono gli anni in cui l’ambiente accademico e la stessa scena culturale veneziana vivono all’ombra della figura di Emilio Vedova, che con le affermazioni legate al ciclo dei "Teleri" prima e, successivamente, dei "Dischi" e dei "Tondi" raggiunge il punto più alto della sua produzione, celebrato con le partecipazioni alla Biennale di Venezia e a Documenta 7: “Vedova non era un professore molto democratico: aveva un 30% di studenti che seguiva con attenzione, gli altri molto meno. Io ho avuto la fortuna di essere in quel 30%. Una sera camminavo con Cristiano Bianchin, che studiava in Accademia con me. La sessione era vicina, avremmo avuto l’esame un paio di giorni dopo. Abbiamo visto che c’erano le luci accese nell’aula vedova e ci siamo detti 'guarda che ci sono ancora Gazzari e Vedova, andiamo a salutarli'. Il maestro ci ha guardati e ci ha detto 'ah ragazzi ma voi avete l’esame a breve, giusto? Allora vi do mezz’ora, uno al piano di sotto e uno al piano di sopra, mi fate due personali e io poi passo a valutarle. Questo è il vostro esame!'. Ho esposto una serie di lavori, che avevano come filo conduttore la figura umana: ero figlio degli anni ‘80 quindi per me erano importanti la neofigurazione, la transavanguardia, il ritorno a un certo tipo di narrazione. Ero un po’ graffittista, un po’ transavanguardista, un po’ neoespressionista. Tutte cose, queste, che Vedova non apprezzava. Allora lui ha iniziato a sindacare, voleva che queste figure esplodessero. Io mi sono infastidito e gli ho detto che, pur stimandolo, volevo conservare il mio stile, non appiattirmi sul suo. In questo modo mi sono reso conto che se fossi rimasto lì avrei continuato ad avere questo limite. In quelle situazioni si rimane un po’ soggiogati dalla grandezza dell’artista e dell’uomo”.

La conseguenza di questo è la decisione di spostarsi all’Accademia di Firenze per completare il percorso di studi: “Il giorno stesso dell’iscrizione al corso di pittura mi chiesero se avessi qualche preferenza e io ho espressamente richiesto il professore meno significativo che avessero. Venivo dall’esperienza con Vedova e volevo 'cambiare aria'. Alla segreteria ovviamente mi risposero che ogni professore da loro era importante, allora chiesi il meno noto. Mi iscrissero al corso di Gustavo Giulietti, grande persona e artista di ottima tecnica e sensibilità, ma non famoso. Ho instaurato con lui un rapporto, non dico da pari a pari, ma di dialogo aperto. Giulietti era un professore, non era il Maestro. Mi ha lasciato lo spazio per lavorare e mi ha detto che avremmo discusso del mio lavoro, ma che non mi avrebbe detto lui cosa fare. Mi ha insegnato molto e ho persino seguito un corso di affresco, nel quale non si discuteva di massimi sistemi, ma di cose molto pratiche. È lui inoltre che mi ha chiamato d’estate per dirmi che era uscito il concorso per le accademie. Quell’estate ero al mare in Spagna con gli amici e lasciavo a mia madre l’indirizzo e numero di telefono del posto dove eravamo, per le emergenze. Un giorno trovai un biglietto con scritto 'Urgente, chiamare subito, prof. Giulietti'. Lo chiamai e lui mi disse solo 'Luca, dove sei? Devi tornare e preparare il materiale per il concorso'. Mi buttai in questa nuova avventura ed entrai in graduatoria; non mi hanno chiamato per molti anni, poi mi contattò Palermo per una supplenza come assistente. Ho iniziato così una carriera che mi ha portato, attraverso Palermo e Roma, fino all’Accademia di Brera”.

Il percorso di Coser si sviluppa secondo una continua oscillazione di andata e ritorno su temi che gli sono cari, mutuati da stimoli letterari, cinematografici o dalla meditazione sul suo lavoro stesso, con una insolita pratica dell’auto-citazione che talvolta si trasforma in una forma di iconoclastia autoimposta. Questo percorso non è però lineare e registra un momento di profonda crisi, personale e artistica, negli anni immediatamente seguenti la fine degli studi: “Una volta uscito dall’Accademia, mi sono trovato improvvisamente solo, sono caduto in quel buco nero in cui cadono tutti, specialmente in provincia. Mi sono chiesto cosa avrei potuto fare. 'Se ci credo devo ripartire da zero con delle matrici che devono essere internazionali, ma allo stesso tempo profondamente identitarie, altrimenti non vado da nessuna parte': è stata forse l’intuizione più intelligente che ho avuto nella mia carriera. Ho iniziato a guardarmi intorno, sono ripartito da dei testi che mi interessavano legati a una certa sacralità molto introversa, meditativa e quindi ho iniziato ad analizzare le architetture di montagna, le piccole chiese di paese dove la gente custodisce la sua identità più profonda. Quindi ho iniziato a dipingere delle celle bianche e nere, lavori destinati ad essere esposti in coppia, che esprimevano un dato e il suo opposto a livello formale. Dopo un certo tempo questa riduzione mi ha portato nel campo dell’astrazione e del minimalismo, che è molto difficile sostenere per me, per come sono fatto io, che amo parlare, il cinema, la letteratura, la narrazione. I miei amici più stretti, che conoscevano il mio lavoro, mi dicevano sempre di smetterla di essere sempre così distante, di fare qualcosa che mi piacesse, che non era necessario soffrire. L’arte non è necessariamente sofferenza, può essere anche gioia nel lavoro. Allora è successo un fatto per me molto importante: sono andato a Parigi con degli amici e in un mercatino delle pulci ho trovato un libro di foto di scena di "M - Il mostro di Düsseldorf" di Fritz Lang, che è un film per me molto importante. Quel libro mi diede delle emozioni fortissime, perché mi riconduceva a delle paure infantili. Allora mi sono detto che dovevo farci un lavoro. Dapprima iniziai a disegnare traendo spunto direttamente da questo libro, poi comprai una videocassetta e iniziai a ridisegnare i frame del film. Un lavoro completamente diverso, molto pop per certi versi, molto diverso dal lavoro astratto, silenzioso, che facevo prima. Questa idea ha portato ad un ciclo di tre film e 500 disegni. Vittoria Cohen, allora direttrice della Galleria Civica di Trento, si innamorò di questo ciclo e mi disse che lo avrebbe voluto proporre in una mostra personale”.

La mostra presso la Galleria Civica di Trento, che ha luogo nel 2000, è il punto di svolta della carriera di Coser, che da lì assume una definitiva connotazione nazionale e internazionale. Una figura importante per l’artista, che si pone in maniera trasversale all’interno della sua vicenda biografica e artistica è Umberto Postal: “Lo conobbi nel 1984, in occasione della mostra 'Saranno Famosi?', curata da Fiorenzo Degasperi. Lui era già un artista affermato e faceva parte del gruppo dei Nuovi Futuristi, creato da Renato Barilli. Mi seppe dare buoni consigli, da amico e da professionista insieme. Quello che è successo negli anni seguenti è un po’ quello che succede con i genitori: ad un certo punto mi sono trovato io a doverlo sostenere. Nell’ultimo periodo della sua vita, tornato dal Sud America già psichicamente molto fragile, si è ammalato di cancro al cervello. Veniva in studio da me perché non sapeva dove lavorare: era molto scollegato dalla realtà. Mi sembrava paradossale trovarmi a sostenerlo così, proprio lui che mi aveva aiutato a curare la prima mostra”.

La prassi operativa di Coser non contempla mai la definizione di una sosta, di una comfort zone all’interno della quale percorrere una via sicura e già sperimentata: “La mia battaglia quotidiana è quella di coniugare l’esigenza di andare a fondo, di indagare ogni aspetto della realtà che catturi la mia attenzione, con la ricerca della leggerezza. L’utilizzo del non finito che caratterizza il mio lavoro consiste proprio nel tentativo di conciliare questi due aspetti. È la grande battaglia della mia vita. Quando mi sono imbattuto in una frase di Pina Bausch che diceva 'il mio lavoro è un continuo dibattersi tra forza e fragilità', mi sono subito visto allo specchio. Ma questo genera anche il mio grande problema relazionale. Per me il problema artistico è un problema individuale, in questo sono molto postmoderno, molto romantico: è un problema mio, del mio rapporto con le persone, dell’immagine che proietto che quasi mai coincide con l’immagine che ho di me stesso. Sono due anime che convivono e che fanno a cazzotti”.